Piove. È mercoledì. Sono a Cesena

Poesia crepuscolare e la versione vestito dell'endecasillabo.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena

Non è mercoledì, non sono Cesena, ma piove. E ogni volta che "piove" mi viene in mente il primo endecasillabo di questa poesia, la più celebre di Marino Moretti e tra le più significative ed emblematiche del movimento crepuscolare (A Cesena, 1916). Oggi volta che dico "piove", proseguo con le parole di Marino nostro, è una specie di rituale per assicurarmi che nella testa, in qualche piccolo cassetto, ci sono ancora cose messe tanto tempo fa, che non servono a niente ora ma di cui non voglio fare a meno. Non so se già qui, o tra qualche riga, o con la proverbiale educazione che vi contraddistinge solo alla fine di questa newsletter penserete cosa c'entra mó Marino Moretti? Voglio scriverlo subito, per non lasciare nulla al caso: io sono fan dei Crepuscolari. So che scrivere "sono fan dei Crepuscolari" suona come quella volta che ho detto a Gad Lerner "adoro il libro della Tobagi", una frase che conteneva ben tre sindromi fuori luogo (che abbrevieremo, per il futuro, con la sigla SFL): la parola adoro riferita a un libro, l'articolo/preposizione articolata davanti a un cognome femminile e il fatto di decantare le lodi di un libro competitor di un'autrice diversa dall'autore a cui mi sto rivolgendo. Penso che l'essere bionda, oltre a espormi al rischio di morire per prima nei film horror, legittimi questo linguaggio, perciò continuiamo così, d'altronde questo è il mio spazio e non credo che Gad leggerà mai questa newsletter.

Dunque proseguiamo, e mó cosa c'entra questo endecasillabo con i vestiti? Nella mia formazione, la poesia crepuscolare ha contribuito a definire, nel suo significato di "dare forma", il mio modo preferito di esprimere concetti, semplificandoli, rendendoli confidenziali, quotidiani, umili, con una sorta di distacco ironico e malinconico. E anche, più in generale, ha influenzato il mio gusto personale: mi ha fatto appassionare a tematiche piccolo borghesi, a quella quotidianità fatta di vecchie abitudini, di vecchie stanze trascurate piene di vecchi oggetti, emblema di un passato che non torna, e a quel senso di decadenza che dalle cose si trasferisce alle persone, al pensiero, e in particolare alle figure femminili che sono sempre in bilico tra l'essere e il voler essere, e che poi finiscono per essere quello che sono, permeate di quella fragilità tipica di chi per vivere il presente deve potersi rifugiare in una no man's land, proprio quella che Nina Berberova descrive in quel piccolo volume di Adelphi che vi propongo sempre di leggere, se ancora non lo avete fatto.

Questo gusto è confluito in tante cose della mia vita, tra cui una delle cose più grandi (o più "grosse") : questo brand che si chiama MELIDÉ e che adesso, con un volo pindarico dissacrante e biondissimo, paragonerò al crepuscolarismo di Moretti e di Gozzano. «Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state…» Questo è Guido Gozzano (Cocotte, 1911), manca poco che inserisco anche I Colloqui nel nostro bookshop, vi avverto.

Le cose che facciamo in melidé hanno lo stesso gusto quotidiano e malinconico di una poesia di Gozzano: sono semplici, non si prendono troppo sul serio. Sono umili, hanno il sapore delle cose di tutti i giorni, guardano al presente e al futuro perché non devono restare ad aspettare nell'armadio il momento giusto per essere indossate, come il completo della domenica, e sono consapevoli di dover durare nel tempo, per quel patto di fiducia che abbiamo sottoscritto con il nostro pianeta e con voi che comprate. Ma sono anche la versione-vestito dell'endecasillabo: guardano al quello stile rigoroso del passato, che si esprime sia nella selezione dei materiali sia nelle scelte di design. L'endecasillabo sta nella dorsale della poesia italiana, che parte dallo Stilnovo e scavalca Ungaretti. È quella gabbia con la finestrella aperta, è uno spazio delimitato dentro il quale c'è assoluta libertà. Lo spazio delimitato delle dodici sillabe è per noi la sostenibilità, che circoscrive e delimita le nostre scelte, dentro questo spazio delimitato che nobilita, come l'endecasillabo appunto, la sfida è metterci tutta la creatività che abbiamo per creare qualcosa di bello, di vivo, di parlante. Che sia una serie di parole, come il verso di una poesia, o una camicia, una T-shirt ricamata, una gonnellina (avrei voluto scrivere gonna, ma Gozzano, dovunque sia, so che amerà gonnellina), una giacca, deve essere il massimo del minimo, non deve prendersi troppo sul serio, deve far sorridere con un po' di malinconia per il passato e deve stare nel presente con criticità, ed essere ingenua solo per vedere le cose con entusiasmo, ma senza strafare.

Arrivata alla fine di questa lunga apologia della biondità devo ammettere che sono qui sopratutto per ricordarvi chee volete due esempi di endecasillabi declinati in vestiti, questi due capi lo sono: semplici, quotidiani (la giacca Cappuccio parte da un capo che io ho indossato per dieci anni filati e che poi ho dato a Viola), nostalgici (il Blazer è ispirato a una giacca vintage di Ferré del mio archivio personale), rigorosi, comprensibili, concreti e confidenziali. Può essere "confidenziale" un blazer? Secondo me sì.

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